Mirabilia Luce n. 012

Antonio Mancinelli: Connecting the dots.
la Moda come Osservatorio privilegiato per offrire una lettura della realtà.

 
 

Introduzione
Antonio Mancinelli e Valentina Monari in conversazione.

Caro Antonio, come sta?

Eh, un po’ stanchino perché sto facendo troppe cose insieme. Fra l'altro, non ho ben capito questo esperimento, questa intervista, è un po’ tra lo psicologico e il…

Effettivamente sì.
Non è la prima volta che mi fanno questo commento.
Provengo dalla comunicazione visiva, il mio lavoro è l’art direction. Ma insieme, per interesse personale e per sviluppare tutte quelle skills che erano utili per il mio lavoro, mi sono formata in crescita personale e leadership, dove c’è molto di introspettivo e psicologico.
Ho interiorizzato questo approccio, anche se inizialmente di questa particolarità non me ne ero accorta.

Ecco. Anche questa procedura molto complessa di scrivere, domandare… Segue qualcosa che somiglia più, quasi ad un’analisi.

Beh, diciamo che mi sono inventata il mio metodo. Fosse per me parlerei con i moodboard, per immagini, ma è difficile.
Tra l'altro ogni volta che creo questi incontri, si incrociano inaspettatamente le conoscenze: mi ha fatto piacere scoprire che lei conosce sia Laura Bianchi sia Pablo Arroyo.

Sì, con Pablo abbiamo lavorato insieme per anni. Quando, diciamo, che eravamo tutti e due con i capelli molto scuri – adesso abbiamo entrambi i capelli brizzolati. Quindi veramente lui era giovanissimo ed era già molto bravo.

Ecco, mi stupisce scoprire questo, com'è che l'ho scoperta solo adesso? Dove stavamo entrambi? Non lo so.

Mah, forse perché lei è nata millenni dopo di me?

No, no… Forse anche per la mia disillusione e pregiudizio nei confronti dello scrivere di moda. L’ho sempre trovato un pochino fine a sé stante…

In questo si sbaglia, e questo mi dispiace.

Infatti, forse non sono andata abbastanza in profondità.

Non è assolutamente colpa sua, ma sicuramente devo dire poi questa cosa. Non so se possiamo già iniziare a parlarne.

Sì, sì, certo.

 
 
 
 
 

La moda come Cenerentola del giornalismo.
L’inizio di tutto.

Sicuramente questo è un pregiudizio che persiste ancora ed è abbastanza doloroso per me. Io vengo da una famiglia che non è assolutamente legata in nessun modo a questo tipo di mondo e tantomeno al mondo del giornalismo. E la cosa veramente interessante è che io dovevo fare il medico all'epoca, parliamo dell’82, ’83.

All'inizio non sapevo bene cosa volessi fare, se lo stilista o qualche altra cosa. Parliamo veramente degli albori, anche del Made in Italy, in realtà – il suo momento più bello.

Mi dissero, o fai questa scuola, l’Accademia di Moda e Costume, insieme all’Università, oppure sarà totalmente un disonore per la nostra famiglia avere un figlio giornalista.

E quindi sono anche laureato in giurisprudenza.

Ma a parte questo, è molto interessante vedere come il giornalismo di moda è sempre stato considerato la Cenerentola del giornalismo. Noi e i giornalisti sportivi eravamo quelli considerati un po’ più ignoranti.

A me interessava molto la moda come elemento sostanzialmente sociologico. E sicuramente come manifestazione creativa. Mi è sempre piaciuto tutto il processo creativo che c'è dietro e di come poi la moda si rifletta nella società.

Lei pensi che io sono stato il primo giornalista di moda uomo a occuparsi di questo tipo di giornalismo. Ho iniziato a 21 anni, molto giovane, in un quotidiano, che è il Corriere della Sera.

Era l’85, nasce in quell’anno la cronaca cittadina del Corriere, che viene affidata a questo giornalista assolutamente giovane, avrà avuto dieci anni più di noi, Andrea Purgatori – fra l'altro forse lei lo conosce perché fa ancora oggi questa trasmissione molto bella, si chiama l’Atlantide, su LA7.

Andrea Purgatori ebbe questo colpo di genio.

Primo, di affidare la cronaca della città a persone giovanissime, che non avevano quasi nessuna preparazione in campo giornalistico. Secondo, sparigliando ulteriormente le carte, andando a rompere alcuni tabù.

Primo tra i quali il fatto che, parliamoci molto chiaramente, il giornalismo e soprattutto il giornalismo dei quotidiani, ancora adesso, è un mondo totalmente maschilista, non maschile, maschilista – tanto è vero che ci sono state pochissime, due, direttrici di quotidiani – e profondamente gerarchico.

E quindi normalmente il giornalismo di moda veniva assegnato a delle giornaliste che magari avrebbero voluto occuparsi di, non lo so, politica estera. Mentre agli uomini veniva dato un tipo di giornalismo considerato più impegnato.

Mi ricordo perfettamente che dopo quattro, cinque articoli che uscirono, i miei stessi capi mi dissero, mah, forse è il caso che tu cambi argomento, perchè scrivi molto bene.

Avevo tre passioni all'epoca, che mi sono rimaste. La prima in assoluto era sicuramente il cinema. Poi la politica. E sicuramente mi interessava molto anche la moda, questo è indubbio.

Mettendo insieme queste tre passioni ho cercato di utilizzare la moda come osservatorio privilegiato per poter dare un giudizio sulla società.

Questa cosa fu abbastanza innovativa per l'epoca.

 
 
 
 
 

In quel momento c'era un giornalismo molto descrittivo, per cui Giorgio Armani ha fatto i blazer maschili, Valentino ha fatto i pois… All'epoca il giornalismo di moda era un po’ quello che avverte lei oggi: cosa porteremo tra sei mesi? Quale sarà il colore della prossima estate? Minigonna o pantaloni?

Un giornalismo di moda molto, non superficiale, ma strumentale ad una moda che allora stava nascendo, che doveva sostanzialmente formare dei consumatori delle consumatrici. Un giornalismo di moda molto basico e molto informativo.

Non c'era nessuna lettura della realtà attraverso la lente della moda: cioè, perché Valentino aveva fatto i pois?

E questa cosa mi interessava moltissimo. Andare a studiare quella che oggi chiameremmo antropologia culturale, le manifestazioni della moda.

E questa cosa, devo dire, è stata molto faticosa.

Ovviamente adesso sono contento che ci siano molti giornalisti che hanno adottato un approccio molto più approfondito nei confronti del fenomeno moda, però rimane sempre un po’ nell'aria questa fama del giornalismo di moda come di qualcosa di superficiale.

Sicuramente lei conoscerà questo mio amico scrittore molto bravo che è Sandro Veronesi. Nel suo romanzo Gli Sfiorati definisce tutti una serie di argomenti, la chiama la schiumevolezza. Le cose, tutto quello che rimane in superficie: sì, bella da vedere, ma poi di poca sostanza.

In realtà credo che sotto la schiuma ci sia moltissimo da dire e anche molto da capire riguardo al mondo che ci circonda.



Leggere il mondo attraverso la moda:
due articoli significativi.


Sono poi passati tanti anni, ho passato moltissimi battesimi d'estate, e sono venuto a Milano, dove ho lavorato per undici anni per un giornale politico, Diario. Diario nasceva come costola, come magazine dell'Unità, il giornale del Partito comunista.

A Milano, se posso permettermi, ho trovato sicuramente da parte di un certo tipo di classe intellettuale una grossa resistenza, quando dicevo che mi occupavo di moda.

Invece il Direttore di Diario, Enrico Deaglio, è stata forse la persona, una delle tante persone, a cui devo molto. Un giornalista eccezionale.

Aveva una preparazione e un tipo di cultura essenzialmente fondato sulla politica. Una persona che ha avuto un ruolo importante anche durante tutti i movimenti politici del ‘68 e nei primi anni ‘70 in Italia, una persona estremamente impegnata.

L’intelligenza assoluta del Direttore fu quella proprio di capire che il vestire, l'apparenza, la moda, faceva parte della lettura del mondo. Tant'è vero che con lui penso di aver fatto forse gli articoli più interessanti di tutta la mia carriera.

Per esempio l’articolo sul primo G8, quello di Genova, dove morì Giuliani, dove ci fu la Diaz, eccetera.

Enrico mi chiese un pezzo di moda: io ero terrorizzato perchè ovviamente era stata un'esperienza spaventosa, c’erano stati morti e dei feriti.

Ma tutto questo nacque da una sua visione estremamente intelligente.

Parliamo del 2001, di un'epoca in cui non c'era neanche moltissimo internet, o non in maniera così preponderante come adesso. C'erano quindi gli agenti dei fotografi che portavano direttamente le foto ai quotidiani.

Arrivarono in redazione delle foto del Black Bloc – quelli che più contestavano il sistema costituito, che sfasciavano le vetrine, che causarono vari problemi. Queste foto erano bellissime.

Enrico mi chiamò e mi disse, sono troppo belle per essere casuali. Chiaramente queste persone sono in posa. Andiamo a fondo questa storia.
E divenne una vera e propria indagine.

Fece una vera e propria inchiesta dove scoprì, per esempio, grazie al fatto di avere dei parenti nella polizia, che ogni italiano aveva pagato a sua insaputa più di 70€ a testa per le nuove divise della Polizia, che erano identiche a RoboCop. Oltre i Black Bloc, c'erano poi anche le Tute Bianche, con i palmi delle mani dipinti di bianco.

E quindi la moda, un certo modo di vestire, un certo modo di apparire, era stato assolutamente strumentale: rispondeva al fatto di sapere che, per la prima volta nella storia, una grande protesta popolare sarebbe passata attraverso i media.

Non era mai successo prima d'allora. Del ’68 ci sono molte foto, ma sicuramente nessuno era in posa.

Ecco, quello fu uno dei pezzi che riscosse molto successo: scoprire quanto dalla parte, diciamo, dei buoni, sia dalla parte dei cattivi, e dalla parte di coloro che erano in mezzo che protestavano, c'era la perfetta coscienza che sarebbero passati attraverso un aspetto visivo.

E questo è estremamente interessante, e fu un'intuizione di Enrico Deaglio.

Sempre per Deaglio, feci un articolo, L’estetica Trash-endente, attaccando in maniera molto ironica e molto divertita, ma assolutamente non scherzosa, il debutto di Berlusconi in politica.

La sua comunicazione era fondata sul culto dell'apparenza: quando Berlusconi fonda Forza Italia proibisce a tutti i componenti del suo partito di apparire sui cartelloni. Proibisce a tutti i giornalisti di Mediaset di farsi crescere la barba. Addirittura Emilio Fede sospende, cerca di far licenziare, un giornalista che si era fatto crescere pizzetto. Fa fuori una giornalista che si è tinta una ciocca di capelli blu, e quindi anche lì, nell’ascesa di Berlusconi al potere, l'aspetto di abito e Potere aveva un significato profondissimo.

Nell’articolo continuavo analizzando anche tutta l'immagine delle donne di Mediaset: c’erano le giornaliste quasi tutte in tallieur, blu, grigio, beige, e quasi tutte vestite Armani – Lilli Gruber, ma anche altre giornaliste, ricordo Daria Bignardi e così via.

E dall'altro lato c'erano le veline, un’estetica di donna assolutamente oggettificata. Quindi nell’esordio politico di Berlusconi emergeva anche una considerazione del femminile estremamente contraddistinta dal modo in cui venivano vestite le persone.

Questa cosa, l’analisi del mondo attraverso le manifestazioni della moda, me la sono sempre portata appresso.

Devo dire che il taglio del mio lavoro ha fatto anche in modo che si venisse a creare un tipo di professione che in Italia non ha mai tanto preso piede, che è quella del critico di moda. Abbiamo critici teatrali e cinematografici, abbiamo addirittura critici gastronomici, ma manca la figura del critico di moda.

Questo perchè c’è stato tutto un lungo percorso del Made in Italy, in cui la moda da un lato ha risentito molto di una connivenza con un certo tipo di potere economico, e dall'altro sicuramente non ha mai avuto l'appoggio di una classe intellettuale importante, che secondo me è fondamentale.

Quindi occuparsi di moda, scrivere di moda non è così superficiale come le sembra. E forse le sono sfuggito, perché appunto… I miei non erano sicuramente degli articoli facili, insomma, per i riferimenti a filosofi, sociologi e così via.

Non sono mai stato il tipo che le avrebbe consigliato cosa mettersi la prossima estate, la prossima estate lei si vestirà come vuole.

Ancora oggi cerco di utilizzare la moda come forma di possibilità, non tanto di giudizio, per prevedere, possibilmente, quello che sarà. Non dico il comportamento, ma comunque quelli che saranno gli scenari del futuro.

Ma perché la moda a tutti gli effetti, esattamente come il cinema, come l'arte contemporanea, come tutto quello che noi consideriamo capacità espressiva, ha sicuramente un risvolto commerciale – cosa che in qualche modo noi italiani giudichiamo sempre una cosa un po disdicevole – ma nello stesso tempo va a colpire moltissimo le emozioni.

 

Creare valore:
Connecting the dots.

Il suo lavoro mira a far luce sulla realtà, su aspetti antropologico-sociali che magari non vengono percepiti. Mi chiedevo se lei tutto questo lo fa per uno slancio ben preciso, perché crede in un fine che grazie al suo lavoro si possa perseguire.

Lei sta toccando un punto molto, molto delicato, oserei dire abbastanza quasi dolorosamente pungente, di chi fa il mio lavoro.

E’ ovvio che io e alcuni miei colleghi ci domandiamo a un certo punto, alla gente interesserà quello che pensiamo? Sarà giusta la nostra lettura? Soprattutto, chi ci dà il diritto di dire quella sfilata è bella o brutta, se corrisponde a una determinata evoluzione dei tempi oppure no?

Quindi sicuramente non credo che quello che io scrivo abbia mai avuto questa presunzione. Non penso di detenere la verità.

Io offro una mia lettura di quello che ho visto. E chiaramente cerco di unire i puntini, connecting the dots: che stato d’animo manifesta un certo tipo di film, un certo tipo di mostre, un certo tipo di situazione politica ed economica, un certo tipo di esperienza collettiva?

Ad esempio, ad oggi stiamo uscendo faticosamente, e forse non siamo neanche totalmente usciti, da un'esperienza che mai l'umanità con tutte le generazioni insieme, aveva attraversato. L’esperienza del Covid, ma soprattutto l’esperienza del Lock-down, avrà e adesso sta già avendo un impatto sull'estetica collettiva.

Il tentativo è quello di spiegare delle cose che magari all'inizio, a chi magari non è interessato strettamente alla moda, sembrano cose un po’ assurde, un po’ surreali. Dico aspetta un momento, ragiona un attimo. Guarda che c'è questo, questo, questo e questo.

E comunque, c'è sempre questo sottofondo che è la moda: come dice un grandissimo sociologo e semiologo che è Ugo Volli, la moda è un gioco in cui siamo coinvolti tutti.

Anche chi pensa di non essere interessato alla moda e di vestirsi in maniera assolutamente incurante della moda, che è a sua volta un’altra moda. E’ un gioco da cui non si scappa.

Quindi, non fosse altro che per questo, secondo me è importante almeno sapere cosa succede.

E’ ovvio poi che dietro la moda ci sono grandi interessi di natura economica e commerciale. Però è sicuramente un tipo di manifestazione che io oserei chiamarla tra il culturale e il commerciale, che è degna di nota esattamente o tanto quanto una Biennale di Venezia.

Sono tutte delle manifestazioni di uno stato d'animo del mondo.

 

Il Fil-Rouge:
le manifestazioni della cultura, anche popolare.

Il fil rouge del mio lavoro è proprio questo, cioè il fatto di andare a cercare di andare oltre i vestiti e cercare di trovare un messaggio ulteriore.

Il mio fil rouge è anche trovare tutta una serie di addentellati con quelle che poi sono le manifestazioni culturali. Non voglio assolutamente essere difficile e poco comprensibile. Non voglio sembrare snob. Faccio tantissimi riferimenti a film, a libri, a serie televisive.

Per me cultura è il fatto che ci sia, non so, una serie televisiva, Pose, che ripercorre tutta la storia della comunità black trans in America negli anni 80, che è strettamente legata poi a tutto un discorso sulla diversità che poi è stato ripreso da Gucci.

Cultura è anche il reality, i social – che hanno sicuramente rivoluzionato il modo di comunicare la moda – gli influencer… Perché comunque tutta questa cultura popolare poi contribuisce a far sì che la moda sia sempre in costante evoluzione.

Sono molto curioso, la curiosità è il motore che mi spinge ad andare avanti.

Stavo scrivendo questo pezzo sulla differenza di estetica che si può trovare tra un social come Instagram, dove sicuramente predomina ancora un'estetica molto delicata, estremamente filtrata, e un social come ad esempio Tik Tok, dove si punta, o si crede di puntare, di più sulla realtà.

I giovanissimi di oggi stanno creando la loro estetica. Per esempio vedo queste ragazzine con gli occhi bistrati che richiamano i manga giapponesi, una certa cultura del fumetto: è interessante perché questa cosa non è stata proposta da nessuno stilista, sulle passerelle non abbiamo visto questo tipo di tendenza. Trovo che nei nuovi social ci sia una nuova forma di cultura che sta diffondendo un'estetica autonoma.

Per cui, ecco, quando parlo di cultura della moda non parlo soltanto, di saggi noiosissimi, di filosofi tedeschi – che sono utilissimi, è giusto leggerli. Però mi piace proprio connettere elementi che siano anche un po’ alla portata di tutti.


In questo devo dire mi è molto utile l’altra attività che mi riguarda molto da vicino, che è l'insegnamento.

Insegno in due Università, Elementi di giornalismo, ovvero come si scrive un articolo a seconda dei target diversi, e, allo Iulm, Discipline della moda, dove ad ogni incontro con i ragazzi parliamo di temi legati a tutte quelle che sono le innovazioni nel campo della moda.

Il fatto di avere una relazione diretta, con dei giovani veri mi diverte molto – i miei ultimi studenti, mi fa un'impressione pazzesca, sono nati nel 2004. Amo che ci sia uno scambio, mi restituiscono una realtà abbastanza diversa dalla mia: non leggono, c’è un tipo di cultura essenzialmente visiva, però poi sono curiosi e così via.

Visto che non diventeranno stilisti ma più comunicatori di moda, insegno loro soprattutto a tener conto della realtà, che è in costante evoluzione.

E cerco sempre di fornire ai miei studenti una serie di strumenti, anche culturali, per non subire passivamente quello che la moda propone loro, ma di formare in loro uno spirito critico.


La moda è cinica, i miei studenti si scandalizzano molto quando dico questa cosa.

In questo momento, ad esempio, tutti i grandi marchi stanno rinunciando o hanno rinunciato alle pellicce vere, ma nel momento in cui si va a parlare con gli scienziati, ci dicono che sostanzialmente le pellicce ecologiche, ecologiche ad oggi non lo sono per niente. Sono fatte con scarti del petrolio e non si distruggeranno mai.

In questo senso, quando io dico di fornire strumenti culturali ai miei studenti vuol dire anche non subire passivamente delle campagne che potrebbero essere ingannevoli.

E’ importante dire che c'è anche questo. Il mondo della moda non è buono, ma come non è buono nessun tipo di industria che asseconda un sistema capitalistico, che inizia forse a mostrare delle grosse falle e grosse pecche.

 

Provocare una riflessione:
gli AM Dilemmas.

Ogni lunedì sul mio profilo Instagram faccio una domanda molto provocatoria, gli AM Dilemmas.

L’ultimo dei quali me l’ha offerto questo mio amico, una persona trans che sta diventando donna. Una persona molto intelligente, giovane, assolutamente gradevolissima dal punto di vista fisico, e che, per fortuna sua, è anche in grado di spendere parecchio.

Mi ha fatto notare questo: c’è questo brand che sta facendo delle campagne con ragazzi trans, con queste scarpe anche abbastanza, come dire, evocative di situazioni un po’ tanto forti dal punto di vista storico.

Lei mi dice, io le volevo, sono andata in boutique.

Parliamo di una quasi ragazza alta un metro e ottanta.
Mi dice, ma se loro usano persone trans nella loro comunicazione, e io sono una persona trans, perché non hanno il 43?

Sicuramente nella moda c'è anche molta ipocrisia.

E se da un lato la moda è prima di tutto un business, ha bisogno di vendere per mantenersi, dall’altro, per convincere i clienti, è diventata talmente sofisticata da intercettare anche delle tematiche sociali e politiche molto, molto importanti.

Diventa molto più facile oggi parlare, ad esempio, di persone trans, quando in passerella vediamo la modella transgender. O, quando in televisione vediamo Mahmood o Achille Lauro in gonna, accettare un certo tipo di abbigliamento che forse fino a dieci, quindici anni fa sarebbe stato giudicato assolutamente inadeguato per un uomo.

Quindi sicuramente la moda, da questo punto di vista, sta aiutando in qualche modo ad accendere i riflettori su alcune tematiche molto interessanti.

 

L’ispirazione per una nuova storia:
l’osservazione del quotidiano.

Come giornalista dico sempre che noi siamo giornalisti, dobbiamo registrare la realtà.

Ovviamente ci sono degli appuntamenti fissi che sono le sfilate, le fashion week, sia Parigi che Milano.

Quello che posso dire è che io sono una persona che fa una vita assolutamente normale, per cui dal prendere i mezzi pubblici, al chiacchierare con chiunque – dal mio panettiere, all'amico intellettuale… Mi piace moltissimo avere amicizie trasversali di tutte le età e tutti i tipi, e anche, e quello mi diverte molto, di diverse tendenze politiche.

E quindi, sostanzialmente, l'ispirazione viene dall'osservazione della realtà.

Dal fatto di vedere mamme che si vestono uguali alle figlie e chiedersi cosa voglia dire tutto questo. Per arrivare poi a fare un discorso, ad esempio, sulla nostra relazione con il tempo che passa, con l'invecchiamento e, in ultima analisi, anche rispetto alla morte.

Io ho scritto molto su questo tema perché, per esempio, quando ero piccolo, ricordo perfettamente il 40º compleanno di mia madre, e mia madre era assolutamente una signora, non una ragazza.

Adesso le quarantenni si vestono usando quasi gli stessi vestiti delle figlie, consideriamo le quarantenni delle ragazze, anche le cinquantenni.

Questa cosa questa cosa mi diverte molto.

Mi diverte molto anche, ad esempio, vedere un certo tipo di giovani che magari sono totalmente omofobi, ma poi si mettono lo smalto.

Come mai? Ed è successo davvero, ho chiesto, e le risposte sono state meravigliose. Del tipo, ah ma questo smalto è nero – e se era rosa non andava bene, e invece il nero è da maschio?

Prendo ispirazione dalla realtà e da tutti i tipi di realtà, ripeto.

Ho scritto recentemente un libro sullo styling con Susanna Ausoni, sul dare un significato ai vestiti a seconda delle persone che le indossano. Lei è praticamente quella che ha inventato la professione dello styling in Italia e ha vestito praticamente quasi tutto Sanremo.

Susanna per esempio su Mahmood ha fatto un'operazione anche politica, per cui l'ultima sera a Sanremo aveva la gonna. Anche quella è quella cultura popolare che mi interessa.

Oppure chiedersi, come mai Zelensky sceglie di uscire in copertina con la moglie su Vogue UK? O cosa vuol dire il fatto che Zelensky in tutte le occasioni possibili immaginabili, anche quando non sarebbe consigliabile, appare sempre con la maglietta militare?

Quindi come vede appunto, la moda si insinua anche in situazioni politiche e anche il contrario.

In questo senso devo dire che la vita quotidiana mi attira moltissimo. Tutto qui.

 

Il progetto più significativo:
trasmettere agli altri consapevolezza e i propri strumenti.

Il progetto più significativo.
Spero sempre che sia il prossimo.

Non potrei dire una mostra o un lavoro in modo particolare. Ne ho fatti molti. Mi sono divertito molto. Ad alcuni ovviamente, sono più legato, altri meno.

Sicuramente la strada che abbiamo un pochino aperto in un momento in cui veramente il giornalismo di moda era considerato qualcosa di veramente sciocco.

Ma in generale, direi che non avendo io figli, il progetto che più mi dà soddisfazione è vedere quando i miei studenti e studentesse si sono fatti strada. Alcuni di loro, ad esempio, sono diventati direttori di giornali.


Insegno da moltissimi anni ed è una cosa che ho sempre voluto tenere parallelamente al mio lavoro di giornalista.

E’ così bello trasmettere la propria esperienza e, non il dico sapere, ma i propri strumenti, come un artigiano fa con un apprendista, e vedere che magari questo apprendista diventa più bravo di lui.

Quindi, se posso scegliere un progetto tra i tanti è questa forse la cosa che in qualche modo dà un senso al mio lavoro, a tutto quello che ho fatto.

E’ quella cosa che in generale mi dà più soddisfazioni sicuramente.

 

Il consiglio più prezioso:
guarda il mondo attraverso le tue ossessioni.

Allora il mio consiglio è sicuramente, come ho detto prima, coltivare in maniera quasi ossessiva la curiosità. Essere profondamente curiosi.

Se c'è una cosa che non si conosce, non vergognasi e chiedere, rompere le scatole, farsi spiegare come funziona, perché, percome, cosa succede, cosa significa.

Nello stesso tempo avere una buona base culturale.

Perché essere curiosi significa anche poi studiare, studiare quello che c'è stato, studiare la storia dell'arte, studiare la storia della società, non aver paura di spendere il proprio tempo per qualcosa che potrebbe sembrare lontano nei nostri interessi. In realtà tutto serve, tutto poi torna utile.

E contemporaneamente, e può sembrare un consiglio contraddittorio, partire da una visione del mondo molto individuale.

Questo lo vedo anche, ad esempio, in due casi come quelli di Alessandro Michele e Demna in Balenciaga.

Cioè va benissimo avere dei maestri. Io ho dei maestri, coltivo la lettura dei maestri. Ammiro tantissimo e talvolta rubo anche degli aggettivi a uno scrittore, a una giornalista che c'è stata prima di me – , ad esempio, io ho amato moltissimo Camilla Cederna, e Irene Brin.

Però nello stesso tempo cercare di vedere il mondo attraverso le proprie ossessioni.

La mia era la politica e il cinema e la moda, ad un'altra persona può interessare tantissimo l'economia, la finanza e la difesa ambientale…

Quindi partire da una storia personale. Perché solo se si parte da un racconto personale con cui si filtra poi la realtà, si arriva poi ad una scrittura, ad uno stilismo, o ad un artefatto.

Ecco, andare a cercare dentro di sé ciò che ci emoziona di più. Che può anche essere appunto un macrotema e, attraverso quel tipo di lente, andare a poi scrivere di tutto, compresa anche la moda.

Più cose si sanno, paradossalmente più libertà si ha, comunque permettono di dare un giudizio ancora più approfondito.

Ma l’importante è partire da ciò che ci fa più vibrare.

 

Credits.
I ritratti di Antonio Mancinelli sono stati scattati da Pablo Arroyo.